Per non dimenticare Amatrice e L'Aquila - parte 4


Solo la mattina dopo trovo il coraggio di andare a vedere casa mia, o, di quello che ne rimane. Obbligo i miei piedi a seguire quella strada. Il mio corpo si oppone. Ripasso a mente le indicazioni che mi ha dato Teresa prima di uscire di casa. Dritto, a destra, a sinistra e di nuovo a sinistra. Hanno cambiato le strade. È rimasta solo quella principale, attaccata alla piazza.

Non so esattamente cosa mi aspettassi di trovare nel posto in cui ci sarebbe dovuta essere la mia casa a pezzi ma di sicuro non questo. Mi ritrovo davanti a uno spiazzale vuoto. C’è dell’erbaccia sparsa qua e là dove sarebbe dovuto esserci la mia casa. Tutto è salito al cielo, non è rimasto niente. Il terreno è ricoperto da uno strato di sabbia sottile. Sabbia diversa da quella a cui sono abituata nella mia nuova casa. Questa è grigia, frutto di macerie sgretolate. Sono la mia casa. C’è solo un alberello piantato nel centro. Mi avvicino. È un cipresso, ha il significato di lutto. Ricordo che me lo aveva detto la mia migliore amica.

Il mio cuore batte forte, sento tremare le mie gambe, ma non mi muovo. Non faccio un passo, non mi sposto di un millimetro da dove sono. Se chiudo gli occhi, forse, ritorna tutto come prima. Se chiudo gli occhi, forse, sento di nuovo l’abbraccio di mio padre, un bacio di mia madre e una spinta da mio fratello. Se chiudo gli occhi, forse, mi sveglio.

Se chiudo gli occhi, ho di nuovo undici anni e sono sull’uscio della porta d’ingresso. Se chiudo gli occhi, mi pulisco le scarpe sullo zerbino appena fuori dalla porta ed entro in casa. Sento il fuoco scoppiettare e il calore mi avvolge. Il profumo della cena mi sfiora le narici mentre mi avvicino al camino. Mi siedo davanti, nemmeno mi tolgo il cappotto. Come ogni volta, vorrei stare in silenzio per sentire unicamente il rumore scoppiettante del fuoco, delle canzoni canticchiate da mia madre a mezza voce e la voce di mio padre che cerca Nerina in ogni posto della casa; ma mio fratello sta giocando alla playstation e non accenna ad abbassare il volume, anche dopo miei vari richiami. Da quando gliel’hanno regalata, non passa un giorno senza giocarci.

Se chiudo gli occhi, sono seduta nel patio sorseggiando una bevanda fresca con mia nonna, chiacchierando come due ragazzine. Il caldo non è umido, si sta bene e indossiamo dei cappelli a testa larga che ci siamo regalate per Natale. Sorseggio a piccoli sorsi il mio thè freddo, prima dell’arrivo urlante di mio fratello. Sta, ancora una volta, spaventando il gatto, un altro dei suoi passatempi preferiti.

Se chiudo gli occhi, sono sul mio letto insieme alla mia migliore amica Arianna, parlando di trucchi, di vestiti, di argomenti che ancora non ci interessano, ma lo facciamo lo stesso, giusto per sentire l’ebbrezza di sentirci più grandi. Quanti discorsi facciamo sui nostri futuri sedici anni! Ognuna con il proprio ragazzo, passeggiando per la piazza del paese, con scarpe con il tacco e lunghe gambe slanciate. Ci iscriveremo in palestra, oppure faremo qualche altro sport, sempre insieme però. Andremo alla stessa scuola superiore, staremo nella stessa classe così da poter spettegolare su tutti i ragazzi della scuola.

Se apro gli occhi, davanti a me vedo solo uno spiazzo vuoto ricoperto da una sabbia grigia.

Se apro gli occhi, ho freddo, mi stringo nel mio cappotto, ma non basta.

Se apro gli occhi, sono una nuova persona. Sono una ragazza forte, così mi dicono. Sono stata fortunata, mi dicono anche questo. Mi dicono tante cose, ma nessuno sa la paura che mi toglie il respiro quando un compagno di classe scuote il nostro banco per scherzo. Nessuno conosce i miei giramenti di testa e la paura cruda di star per rivivere un altro terremoto. Nessuno sa, che quando nella mia nuova città, c’è stata una lievissima scossa di terremoto, ho preso il primo autobus per la campagna e ho dormito in un sacco a pelo, lontano chilometri da tutti gli edifici per tre giorni.

In tutti questi anni non sono mai riuscita a spiegare a nessuno, come mi sento tutti i giorni. Sto giungendo alla conclusione che forse neanche io lo so. È una mancanza costante, come se non avessi più un organo vitale. È vero, sono riuscita ad andare avanti, almeno il minimo per continuare a vivere, mi sono fatta dei nuovi amici, riesco a ridere per delle cose anche futili ma è come se fossi alla ricerca di un qualcosa che non potrò mai trovare. È una caccia al tesoro, cercando qualcosa di inesistente.



Quando le mie gambe decidono di muoversi, ritorno a casa o per lo meno, ci provo perché non appena dieci minuti dopo, mi sono già persa, non riuscendo più a capire la mappa delle nuove strade. Chiamo Teresa e quando riesce a trovarmi, mi porta a casa.

Dopo aver cenato, mi siedo davanti al camino con in braccio Nerina. Mentre la tengo sulle gambe per una frazione di secondo mi sembra che non sia successo niente, che sia tutto a posto. Ma non appena giro la testa, pronta a formulare la classica domanda a mio fratello, ”Puoi abbassare il volume per favore?”, mi rendo conto che seduto sul divano accanto a me, non c’è nessuno. La televisione è spenta e non c’è nessuno schermo accesso né nessun suono troppo alto. Mi pietrifico, i miei occhi non trovano niente da guardare che non faccia male quindi, fissano il vuoto. Il calore del fuoco davanti a me improvvisamente svanisce. Vorrei alzarmi per prendere una coperta ma mi chiedo cosa possa importare una stupida coperta quando sono rimasta da sola. Sento le lacrime sgorgarmi dagli occhi e ora non ho nessun dubbio sulla loro provenienza, sono mie. Mi finiscono in bocca e sento il sapore salato come il mare vicino alla mia nuova casa. Mi viene in mente quella sabbia grigia che è casa mia. Mi stringo al petto Nerina e la sua lingua mi asciuga le lacrime. È l’unica cosa che mi è rimasta.



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Il palazzo nella foto veniva chiamato il “palazzo della banca” perché venne acquistato dalla Cassa di Risparmio di Rieti. Costruito negli anni ’50, doveva essere adibito ad ospitare un hotel moderno invece che appartamenti. Il palazzo rosso ad Amatrice non era visto di buon occhio, complice l’altezza eccessiva e il colore poco consono allo stile del paese.
Non era dotato delle severe norme antisismiche entrate in vigore anni più tardi, ma era costruito bene. e fu questo il motivo per cui non crollò il 24 agosto 2016. Divenne macerie solo il 26 ottobre dello stesso anno, quando due forti scosse sismiche scuotero il centro Italia.
«Ha fatto il suo dovere, ha consentito a tutti di uscire ora è meglio che sia morto solo invece di essere ucciso». Così commentò il figlio dell’architetto dopo il suo crollo. 

Silvia

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