Per non dimenticare Amatrice e L'Aquila - parte 2

Guardo fisso davanti a me. Fisso il mare, il cielo nuvolo, i gabbiani che strillano in volo. Sento la sabbia fredda, sotto i miei piedi. I brividi risalgono su tutto il corpo, lasciandomi infreddolita. Cammino, lentamente, do le spalle all’orizzonte. Tengo lo sguardo basso. Guardo la sabbia, quella sabbia che a me fa venire tutt’altro in mente che avventure estive e castelli di sabbia. Non riesco a non pensare, che è ciò che rimane della mia casa. Questi miliardi di milioni di granelli un tempo erano casa mia. La mia stanza, il mio salotto, la mia cucina, la mia casa sicura. Una notte, e quella casa si trasformò in sabbia. E tutto finì. Tutte le certezze crollarono, proprio come castelli di sabbia. La mia famiglia fu spazzata via, divennero anche loro granelli di sabbia.  

Susanna è la mia migliore amica, la conosco da tanti anni ormai, da quando mi sono trasferita in questa nuova città, per la precisione. Mi è sempre stata accanto, mi ha sempre dato tutto l’affetto che poteva darmi, ma nessuno può entrare nel mio dolore, neanche lei. E mi dispiace. Soprattutto quando vedo nei suoi occhi il riflesso del mio dolore che non potrà mai alleviare. Ma se non può farlo cessare, allora, cerca di entrarci dentro. Si insinua nel mio dolore in modo delicato, accendendo una candela di speranza qua e là.

Si siede a poca distanza da me, dopo aver riposto il telo da mare dentro la sua borsa. Non dice una parola, ma quando chiudo gli occhi, sento le sue braccia che mi stringono affettuosamente.

I miei amici di questa città, non capiscono i miei comportamenti. Per loro, d’altronde, è stata solo una semplice scossa che neppure li ha fatti svegliare. La mattina dopo, la loro sveglia è suonata e hanno ripreso a vivere come se niente fosse successo, come se io non stessi sotto quelle macerie, cercando di chiedere aiuto con la voce fioca che mi rimaneva.

Sono passati sei anni dalla notte in cui mi è stato strappato tutto via, e solo ora sono riuscita a tornare veramente a casa. Ma niente è rimasto com’era. La piazza in cui passavo ogni pomeriggio con i miei amici, è stata smantellata dai numerosi detriti. Ci sono delle nuove panchine, sparse qua e là, ma non c’è più nessuno, non a quest’ora almeno. Mi siedo su una di esse, non riconoscendole. Il legno ormai rovinato e impregnato costantemente di acqua è stato sostituito. Queste sono relativamente nuove, fatte di acciaio in modo che neanche loro possano più cadere a pezzi. Mi sistemo meglio la sciarpa dentro la mia giacca a vento che indosso. In cielo ci sono nuvole grigie, segno di un temporale imminente, ma non importa. Non posso andarmene ora che ho ritrovato il coraggio.

Il pavimento è sempre lo stesso. È di pietra grigia. È crepato in più punti, e rotto lungo i suoi bordi, ma ancora resiste. C’era un grande albero, quasi al centro della piazza e ora è rimasto solo il tronco principale. Dove andranno a giocare all’ombra i bambini, in estate? Ma poi mi chiedo: quali bambini? Non c’è rimasto più nessuno. Quelle poche persone sopravvissute si sono trasferite, lontano da qui, lontano da questo dolore permanente. Ci sono rimasti solo pochi anziani, senza un altro posto dove andare.

Ricordo quando mia zia, mi caricò in macchina e mi portò via il più velocemente possibile da qui. Tremavo, ma mi girai a vedere per l’ultima volta la mia vita. Questa piazza, era ricoperta di detriti. Ogni strada, era ricoperta di sabbia sottile. Appoggiai le mani al finestrino e piansi per la vita che stavo lasciando. Ero ancora in stato di shock, ancora non riuscivo a realizzare che ero rimasta l’unica sopravvissuta di quella casa.

Mi guardo intorno, cercando di riconoscere i luoghi della mia infanzia ma ormai è tutto distrutto. Seguo con gli occhi il lato più lungo della piazza, dove c’erano le bancarelle, quella sera. La piazza era gremita di persone e c’erano bambini che scorazzavano su e giù. Ricordo tutto. Quanti di quei bambini hanno avuto la possibilità di crescere?

C’era la festa di paese. Una settimana di festeggiamenti per la santa patrona del paese, Santa Maria. Dovevano essere giorni di gioia, non attimi di terrore. Ogni persona doveva alzarsi il giorno dopo felice. E invece, tutto questo non è stato possibile.

La chiesa della piazza è come me la ricordavo dall’ultima volta. O quasi. Lungo tutta la facciata ci sono innumerevoli impalcature. Ricordo che fu una delle poche costruzioni a non crollare del tutto. È crollato solo il campanile, sopra una casa, uccidendo tutti. La chiesa ha retto le innumerevoli scosse, non è caduta, ma è costantemente in pericolo.

Con gambe tremanti, mi alzo dalla panchina e con passo lento, mi avvio verso il grande portone fatto di legno lavorato con ghirigori che dall’esterno si allungano fino al centro, convergendo in una maniglia. Mi stupisco di non aver mai notato questo dettaglio fino a d’ora, né il giorno della mia comunione, né il giorno dei funerali. E non appena entro mi sembra di essere stata catapultata proprio in quel giorno pieno di pianti e urla. L’ultimo giorno che ho passato nel mio paese. Mi metto seduta nell’ultima fila. Le panche non sono cambiate. In un certo senso mi riportano a casa. Mi ricordano che non sono l’unica ad essere sopravissuta. Anche le pareti interne hanno diverse impalcature. Rimango seduta su queste panche per un po’, fino a quando i pensieri non cominciano a fare troppo male, e allora esco.

Osservo la piazza da quest’angolatura, anche se non mi dovrebbe essere nuova la vista. Le vecchie case con i balconi ormai scrostati non ci sono più. Sono state sostituite da palazzine di tre piani con colori scuri. A ripensarci, non avremmo dovuto avere dubbi, quei balconi non sarebbero durati a lungo. Quelle case che a ogni pioggia erano sempre più deboli, non sarebbero durate a lungo. Ce lo dovevamo aspettare, avremmo dovuto prevederlo. Ma nessuno poteva immaginare l’immaginabile.

Sto in piedi, con le spalle rivolte alla chiesa, quando sento la prima goccia di pioggia. Prima una, poi due, tre, quattro fino a quando non si trasforma in una pioggia fine e lenta. Non mi muovo da dove sono. Ho lo sguardo fisso nel punto più lontano della piazza. Vedo niente e tutto allo stesso tempo. Vedo la festa del paese, la piazza gremita di gente e tavolini sparsi qua e là. Erano stracolmi ogni anno, nessuno poteva mancare. Vedo il nulla, vedo
il nero, vedo l’oscurità in cui annego da quel giorno. Ripenso alle persone con cui ho parlato quella sera. Ricordo ognuno di loro. Non ho dimenticato nessuno. Mi chiedo come possa essere successo, ancora non sono riuscita a realizzarlo: è successo tutto troppo in fretta. Ricordo le macerie sotto di me e l’angoscia di sapere dove fosse la mia famiglia. Dentro di me, sapevo che stavano bene, dovevano stare bene. Ma tutto mi è stato strappato via. Non piango più ormai, ma ho il viso bagnato, e non so più differenziare le lacrime dalle gocce di pioggia. Mi crogiolo in questo dubbio per non cadere. Cammino fino all’albero e appoggiandomi, riprendo fiato, chiudendo gli occhi. Inspira, espira, inspira, espira; è questa l’unica tecnica che ha funzionato nel corso degli anni per calmarmi.




Silvia




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