Per non dimenticare Amatrice e L'Aquila - parte 1


Premetto che è un racconto inventato, non basato su nessuna storia vera. Ho provato ad immedesimarmi in quelle persone che hanno presto tutto. Ho provato a mettermi nei loro panni, ed è stato alquanto spaventoso.
Ma a volte bisogna farlo. Bisogna cercare di entrare dentro di loro per non continuare ad essere così ottusi da pensare "tanto non capiterà mai a me".

Ho diviso il testo in 5 parti, per rendere più agevole la lettura. Ogni capitolo uscirà a 3 giorni di distanza.

Questo racconto l'ho scritto qualche mese dopo il terremoto che il 24 agosto 2016 distrusse Amatrice, Accumuli e Arquata del Tronto. Oggi è il secondo anniversario. 

Alle 3:36:32 del 24 agosto 2016 una scossa di magnitudo 6.0 fu registrata nel reatino. I danni furono gravissimi. 299 vittime e oltre 300 feriti. 

All'incirca quatto minuti prima del 6 aprile 2009 fu registrata una scossa di 6.3 in Abruzzo. La provincia maggiormente interessata fu quella del L'Aquila, registrando 309 vittime e 1600 feriti.


SABBIA GRIGIA
E’ sera. Sto guardando fuori dalla finestra. Vedo la città sotto di me scorrere come se niente fosse. Penso a quanto sia fortunata tutta questa gente. È gennaio inoltrato, ma la mia finestra è aperta. Non l’ho più chiusa, da quella notte. La notte in cui tutto il mondo mi è crollato addosso. Mi è crollato addosso veramente il mondo, in un secondo mi sono ritrovata sotterrata sotto cumoli di macerie e sabbia, con il viso pieno di tagli, e una gamba rotta dentro casa mia. Un momento dormi, pensando alla festa di paese appena conclusa e il momento dopo ti ritrovi sotto casa tua, con il corpo sommerso dal tetto e dal piano superiore. Guardo fuori, guardo i palazzi davanti al mio, e penso che cadrebbero come birilli, proprio come è successo alla mia casa. Guardo le persone camminare sui marciapiedi, chi con la mano stretta in un’altra, chi con una busta della spesa e penso a quanti di loro sarebbero ancora qui se fossero stati presenti quella notte.

Guardo l’ora dal cellulare, la forte luminosità dello schermo mi fa strizzare gli occhi. Le undici. Tra poco mia zia dovrebbe passare a darmi la buonanotte e infatti eccola, qualche minuto dopo, entrare. Bussa, ma sa che non ce ne sarebbe bisogno. Qui dentro non c’è mai nessun’altro oltre me e i miei fantasmi. Appoggia la mia solita camomilla sul comodino e si siede ai piedi del mio letto.

«Sta andando meglio» lo ripete ogni giorno, ogni sera, ogni mattina per convincersi che sta davvero andando meglio. E io prontamente, ogni volta che pronuncia quelle tre parole le annuisco, le rispondo che si, sta andando meglio. Per farlo credere a me, per farlo credere a lei, non ha importanza.
Sorseggio la mia camomilla infilandomi sotto le coperte. Mi dà il bacio della buonanotte anche se sono troppo cresciuta, ma non importa, mi fa sentire a casa. Spengo le luci e cerco di spegnere anche il cervello, ma non riesco, come ogni sera d’altronde. Mi rigiro tra le coperte, cercando di addormentarmi e pregando di svegliarmi nello stesso letto, con ancora il tetto intatto sopra di me.

Alle tre e mezza di notte mi sveglio, come se al mio corpo venisse automatico. Ormai lo so, è da sei anni che mi sveglio sempre alla stessa ora. Apro gli occhi e rimango immobile a letto. Fisso il soffitto sopra di me e trattengo il fiato, avendo paura che anche un solo respiro potrebbe far crollare di nuovo il mondo sopra di me.

Alcune notti rivivo quelle immagini e non riesco a togliermele dalla testa fino alla mattina successiva, quando le luci dell’alba entrano dalla finestra e sento i primi autobus sbuffare in strada. Rivivo quel dolore lancinante alla gamba sinistra e alla testa. Sento ancora il sangue colarmi giù per il viso, sul collo, sul seno ancora poco sviluppato di una bambina di undici anni. Alcune notti mi si mozza il respiro, e rivivo a occhi aperti la sensazione di stare ancora sepolta là sotto, sotto casa mia. Ma so che non è possibile, mia zia mi ha portato via. Ci siamo rintanate dentro una casa antisismica, in una zona a bassa sismicità. “Sta andando meglio” mi ripeto. Attraverso gli occhi, mi passano davanti le immagini di mia zia che mi corre incontro, e mi abbraccia, che mi tiene stretta mentre piange tutte le lacrime che ha, la mattina in mezzo al mio paese, o meglio, in mezzo a quello che restava del mio paese, ossia cumuli di macerie e sabbia, detriti della nostra vita.

Alcune notti vedo i loro volti che mi proteggono. Vedo mio padre, come l’ultima sera; in pantaloncini e con la maglia della Roma. Gli occhi leggermente lucidi, segno che non aveva visto solo la partita. Vedo mio fratello, cresciuto, come sarebbe dovuto essere ora. Un ragazzo robusto, con i capelli neri e con un pallone sotto braccio. E vedo anche mia madre, l’immagine più raccapricciante di tutte. La notte mi viene in mente solo l’ultima cosa che ho visto di lei. Una gamba insanguinata, che sporge da un sacco nero. La camicia da notte lacera, macchiata di sangue e polvere. Mi fanno compagnia, quasi ogni notte. Mi proteggono, ma mi impauriscono anche. Mi ricordano l’orrore che per anni ho cercato di cancellare, con una fila di psicologi e psichiatri. So che mia nonna, tirata fuori dalle macerie dopo otto ore là sotto, due anni fa, era felice di raggiungere sua figlia, suo nipote e suo genero.

In un secondo, ho perso tutto. In un secondo, la mia vita è andata in frantumi, come la mia casa d’infanzia. Ho perso mia madre, mio padre, mio fratello e una bambina di undici anni. Sono rimasta orfana. Non volevo morire, nessuno voleva morire, non in quel modo. Strappato via dalla vita in un secondo nel pieno della notte.

Questi sono sempre i miei ultimi pensieri, prima di addormentarmi ogni notte, rigorosamente dopo le quattro. Perché il pericolo è scampato, l’ora della morte è passata, sono salva per altre ventiquattro ore.

Silvia


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