Per non dimenticare Amatrice e L'Aquila - parte 5

Teresa mi sveglia ore dopo, ancora addormentata sulla poltrona davanti al fuoco, ormai spento e mi accompagna a letto. L’orologio segna mezzanotte, intravedo l’orario con gli occhi che ancora mi bruciano. Dopo essermi rigirata senza successo tra le lenzuola, decido di alzarmi. Resto in piedi, davanti alla finestra e alzo le tapparelle. Pensavo non ci fosse nessuno a quest’ora nella piazza invece, mi sbagliavo. C’è un signore, seduto sulla mia stessa panchina su cui ero seduta ieri. Si strofina le mani sul viso ormai esausto di una persona anziana arrivata al traguardo della propria vita. Da questa distanza non riesco a vedere i lineamenti del suo volto ma anche se avessi conosciuto, ora non sarei più in grado di riconoscerlo. Sei anni non sono molti ma il dolore trasforma. Indossa solo una giacca sbottonata, tipico delle persone che hanno sempre vissuto in questo posto. Non sentono il freddo, ormai è una parte di loro. Alza la testa e guarda nella mia direzione. Non mi può aver visto ma riconosco il mio stesso dolore sul suo volto. È triste, è disperato, è ansioso di raggiungere le persone che ha amato. È il dolore di un vecchio signore che non ne può più di vivere. Vuole solo la pace e la tranquillità. Vuole l’affetto dei suoi cari. Vuole rivederli.


Mi guardo nel riflesso della finestra. Le mie occhiaie, mi fanno rispecchiare in quel signore. Nei miei occhi, è riflessa la stessa voglia di raggiungere la mia famiglia. Ma io ho diciassette anni. Sono solo a un quarto della mia vita, non posso avere voglia di morire a quest’età, anche se il dolore mi mozza il respiro. Io ho il dovere di vivere la mia vita, se qualcuno lassù quel giorno mi ha risparmiato, ci sarà un motivo. Ho il diritto di poter fare qualcosa. Ho il potere di non ridurmi nello stato di quel signore, anche se sto entrando nella sua ottica ormai da anni. Non lo posso fare, io sono forte.
Perché con il passare del tempo, va sempre meglio.



La mattina seguente, con il doppio delle occhiaie del giorno precedente, mi dirigo verso casa mia. Cammino piano, ma con passo deciso. Tengo gli occhi solo fissi davanti a me. Non guardo niente intorno. Ignoro le nuove case e ignoro i lotti vuoti dove un tempo c’erano delle costruzioni. Una volta arrivata, deposito un mazzo di mughetti su quella sabbia grigia. Un mazzo con cinque fiori, come il numero delle persone che ho amato e che mi vegliano dall’alto, “ritorno alla felicità”, significano quei fiori, ci provo, lo farò per loro. È questa la promessa che mi faccio, quando allento la presa della mia mano del mazzo di mughetti. Lo deposito adagiatamente su quel terreno, un tempo felice. Dopo di che, apro la mia ampolla e prendo un pò di quella sabbia. Ho deciso di portarmi nella mia casa nuova, un pò della mia vecchia casa. Così da ricordarmi, ogni giorno della mia lunga e vissuta vita, che mi è stato affidato un compito: quello di fare in modo che non succeda più una tragedia del genere. Farò in modo che nessun bambino perda più la sua famiglia o la sua vita a causa di case che non dovevano essere costruire.

Decido di tornare a casa mia, anche se il rientro sarebbe dovuto essere tra tre giorni. Qui non c’è più niente che mi appartiene. Mando un bacio in cielo, salutando tutti. Prendo Nerina, le mie poche cose e mi dirigo verso la stazione che mi riporterà a casa. So che la mia famiglia, Arianna, e tutti gli altri che non ci sono più, hanno ricambiato e mi proteggono dall’alto. E si, anche quel signore. 

Silvia

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